Racconti dal mondo precario

domenica 8 dicembre 2013

La colpa della malattia


Per dare un senso alla malattia gli uomini hanno da sempre dovuto attribuirgli delle cause, siano esse biomediche, sovrannaturali o simboliche.
Nel 2009 mi trovavo in Tanzania, nel villaggio di Nzihi, presso la popolazione dei Wahehe. Lì indagavo, nell'ambito del mio percorso di studi universitari, i modi di discretizzare e curare la malattia dell'Hiv/Aids. Fra le cose che più di tutte mi colpirono durante le indagini sul campo fu che ogni attore sociale da me intervistato dava una sua peculiare lettura dell'insorgere e della diffusione del virus in quella regione. Le posizioni che emersero, tuttavia, possono essere riassunte essenzialmente in due grandi tesi: da una parte vi erano coloro che, rifacendosi ad uno stile di vita che per semplificare dirò tradizionale, sostenevano che il virus era comparso a seguito delle grandi migrazioni dei giovani del villaggio che, per trovare fortuna, erano andati a vivere nelle grandi città della costa (Dar es Salam, Bagamoyo o, in alcuni casi l'isola di Zanzibar). Dall'altra parte vi erano coloro che, forti di un bagaglio culturale acquisito in alcuni anni di studio o di vita proprio nelle grandi città, sostenevano che la colpa della diffusione era dovuto allo stile di vita tradizionale e, in particolar modo, dall'istituto matrimoniale hehe.
Nel primo caso, l'insorgere del virus era dovuto al fatto che i giovani, allontanandosi dal proprio villaggio, erano venuti meno a tutta una serie di prescrizioni culturali che stavano alla base della società hehe stessa come, per esempio, la cura degli antenati e, soprattutto le relazioni coniugali intrattenute in quelle città senza il consenso dell'intera famiglia e quindi al di fuori di un preciso corpus di norme che regolavano lo scambio e la distribuzione della ricchezza e delle donne fra clan della società hehe e fra questa e il mondo degli antenati. Ciò aveva provocato, secondo molti, uno squilibrio cosmico che minacciava la stessa esistenza della società. Il virus, in quest'ottica, rappresentava la prova della trasgressione di quelle leggi basilari.
Secondo i sostenitori della seconda tesi, invece, istituti matrimoniali peculiari della società hehe, come la poligamia e il levirato, residui, per molti, di un passato vecchio, superato e viziato da ignoranza, erano la causa della grande diffusione della malattia nella regione di Iringa1. Gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime secondo l'opinione comune, sieropositivi avevano contratto il virus durante relazioni extra-coniugali. Il virus, in seguito, sarebbe stato trasmesso al partner che lo avrebbe trasmesso alle altre mogli (nel caso dell'uomo) e ai figli (nel caso delle donne). In questo caso il virus era la macchia indelebile, minacciosa e infamante per un intero gruppo familiare.
Ciò che accomunava le due tesi, tuttavia, era che la malattia era il frutto di una trasgressione, di una violazione dell'ordine sociale che, in definitiva, minacciava la convivenza e la reciprocità fra gli uomini.
Recentemente, in un contesto totalemente differente, mi sono nuovamente imbattuto nella concezione della malattia come colpa da sanzionare.
Qualche giorno fa, un'importante multinazionale di logistica ha proposto ai suoi operai italiani un accordo: il premio di produzione annuale, che ammonta a circa 162 euro per ogni singolo operaio dello stabilimento, sarebbe stato corrisposto solo a quei lavoratori che avrebbero usufruito dei giorni di mutua al di sotto di una certa soglia. I sindacati, avendo ascoltato la proposta, hanno ad un certo punto chiesto a quanti giorni di malattia avrebbero dovuto rinunciare gli operai che volevano avere il loro premio di produzione. A tale richiesta l'azienda ha risposto che se i sindacati avessero voluto conoscere i dettagli, dovevano prima firmare l'accordo. Preso atto della decisione aziendale di celare i termini precisi dell'accordo fino a che lo stesso non fosse stato accettato dai lavoratori, i sindacati hanno indetto un referendum che ha sancito un esito positivo a favore dell'azienda (aventi diritto al voto 460 dipendenti, votanti 417, rispote affermative 371). A distanza di una settimana dal voto, tuttavia, non si conoscono i termini precisi dell'accordo e, però, bisogna chiedersi cosa cambierà in seguito a questo accordo?
Il diritto “alla mutua” è sancito come uno dei fondamenti della legislazione in materia di lavoro vigente in Italia. Tuttavia, chi ne usufruisce in abbondanza, per ragioni reali o meno, è spesso additato di essere un dipendente con scarso senso del dovere nei confronti della propria azienda e, negli ultimi anni, di essere anche un ingrato nei confronti della stessa e di coloro che non hanno un lavoro in ragione della situazione di disoccupazione o sotto-occupazione generale. In altre parole chi oggi usufruisce della malattia, a ragione o a torto, è considerato come uno scansafatiche, un ingrato, un profittatore. Con il referendum proposto dalla multinazionale, a mio avviso, si fa un ulteriore passo in avanti verso la considerazione del dipendente malato come elemento simbolicamente negativo. La malattia, in questa ottica, è sancita definitivamente e chiaramente come un comportamento deviante e usufruire dei giorni di mutua, oltre una non meglio specificata soglia, è la dichiarazione ufficiale di inadeguatezza al lavoro, di una colpa che va punita con il solo mezzo che oggi conta: il denaro, o meglio, la negazione del denaro. La malattia è una colpa che, se reiterata, può dichiarare un dipendente improduttivo, inutile, un peso per l'azienda e, se tale malattia si diffonde, per la stessa esistenza dell'azienda. Essa diventa così una minaccia latente per l'intera comunità di lavoratori.
La lettura dello stato di malato, in questo particolare contesto lavorativo, si trasforma da diritto dei lavoratori a dispositivo di divisione e governo della comunità dei lavoratori che, presi in una continua lotta fra poveri, potranno identificare nel loro compagno, veramente o falsamente, malato un potenziale motivo di minaccia del proprio lavoro, un sicuro concorrente profittatore che vorrebbe accedere ad un incentivo che in fondo non lo riguarda e, infine, ad un simbolico untore di un intero stabilimento, che troverà un altro escamotage per minacciare chiusura ad ogni piè sospinto.
È la malattia del nostro vicino e, non sia mai, la nostra stessa malattia a renderci precari? Una malattia che abbiamo la necessità, sempre, comunque e dovunque, in Tanzania come in Italia, come in qualunque altro posto, di vedere come una colpa, come uno stato di una evidente trasgressione? Sono quelle 162 euro di premio di produzione negato a sancire il nostro stato patologico?
Se è così siamo davvero un paese malato per cui la cura è ancora di là da venire.
1La regione di cui fa parte il villaggio di Nzihi.

lunedì 21 ottobre 2013

Per un'antropologia dei corpi a riposo. Note di campo.


Torino 4/10/2013
    Sono rientrato giorno 1 dopo 17 giorni di “vacanza” in Sicilia. Sono rientrato cominciando a lavorare nel primo turno (6-14). Ciò significa sveglia alle 4,30 , colazione, quindici o venti minuti di di auto. Poi lavoro senza interruzioni, senza una sola parola scambiata o da scambiare con chi ti circonda perché siete tutti troppo addormentati. Pausa di dieci minuti con un caffè e una sigaretta consumati così velocemente e avidamente da sembrare gli ultimi della tua vita. Riprendi il lavoro. Solo e in silenzio per due ore e mezzo, fino alla pausa pranzo, che dura quaranta minuti.
    Quando finisce questa pausa ti senti quasi salvo, pensi che sei arrivato alla fine della tua giornata e che te ne potrai tornare a casa e riprendere la tua vita: gli ultimi ottanta minuti di lavoro e sei fuori. A volte, però, ti chiedono di fare due ore di straordinario e allora la storia si complica, devi respirare a fondo, devi stare calmo per arrivare alla fine di 10 ore di lavoro con dignità.
   Dopo quattro giorni di questa vita sono tornato a casa e quello che doveva essere un riposino pomeridiano si è trasformato in un sonno profondo durato più di due ore. La stanchezza era così forte che il mio sonno, che generalmente paragonerei a una condizione di a-presenza in cui scivolo piano, oggi è stato un tonfo nell'incoscienza piena: un pesante buco nero che non riesco ancora a togliermi di dosso.
    Bisognerebbe riflettere più spesso oltre che sui corpi a lavoro anche sui corpi a riposo dal lavoro per avere una visione chiara e, quanto più possibile, olistica della questione del lavoro e del corpo in antropologia. Le trasformazioni del corpo al di fuori del lavoro, infatti, sono il simbolo di come l'attività lavorativa stessa modifichi le nostre vite a di versi livelli. Nel mio caso, la stanchezza esagerata provocata dal lavoro mi ha portato a dormire una quantità di tempo per me estremamente inusuale. Ciò ha inciso direttamente sul mio fisico facendo insorgere un fastidioso mal di testa, che ha condizionato diversi piani della mia vita: innanzitutto quello sociale e relazionale e poi anche il piano esistenziale. Nel primo caso, avendo dormito troppo ho dovuto annullare un appuntamento. Nel secondo caso, non ho studiato e questo, quando mi capita per una mia mancanza o per il venire meno di una parte di quella disciplina rigida che mi auto-impongo per riuscire a lavorare e studiare, mi innervosisce e fa insorgere in me una specie di senso di colpa per le pagine che non ho letto o scritto, per avere messo in secondo piano un obiettivo fondamentale della mia vita (lo studio).
    Cosa succede, mi chiedo, quando una stanchezza così plumbea, grigia e pesante come questo cielo dell'ottobre torinese si impossessa, per un lasso di tempo lungo e indefinito, di intere comunità, di migliaia di persone costrette a lavorare a ritmi pensanti e a fare dei lavori logoranti per almeno quaranta anni della loro vita (gli anni necessari alla pensione)? È possibile rispondere che si creano milioni di persone, intere società colme di una stanchezza atavica, profonda, radicata come un istinto di sopravvivenza terribile? È possibile rispondere che l'unico obiettivo di tutte quelle comunità di uomini sia arrivare a fine giornata, addormentarsi e sprofondare nell'oblio di un sonno imperituro e incosciente?

sabato 12 ottobre 2013

La manifestazione, la condizione umana e la fabbrica di cassaintegrati

Lo scorso 5 aprile, intorno alle 9,00 del mattino, il mio telefono squillò. Michele, dall’altro capo del telefono, flemmatico e pacato come sempre, mi fece alcune di quelle domande che di consueto si fanno fra ottimi conoscenti e a un certo punto mi chiese dove mi trovavo. Risposi che ero a casa a riposarmi da non ricordo più quale mia impresa donchisciottesca. A quel punto, Michele m’informò che era in atto una manifestazione improvvisata degli operai Fiat di Termini Imerese. Gli chiesi dove si trovassero in quel momento e che strada stavano facendo e l’uomo dall’altro capo del telefono mi rispose che stavano per partire da piazza Castelnuovo e che l’obiettivo era raggiungere piazza Indipendenza, dove si affaccia la sede della Presidenza della Regione Siciliana, ma che tuttavia l’itinerario era segreto. Raggiunsi i manifestanti quanto prima, intercettandoli sulla via Amerigo Amari, davanti a una stazione della Guardia di Finanza e qui trovai Michele ad attendermi. Mi spiegò che la manifestazione era stata organizzata in segreto, tramite sms scambiati fra i sindacalisti organizzatori, i colleghi e gli impiegati. L’unica cosa che era detta in quegli sms era di farsi trovare per la mattina del 5 aprile alle 8,00 in piazza Sant’Antonio a Termini Imerese. Qui i manifestanti avrebbero trovato dei pullman ad attenderli per portarli a Palermo. Michele m’informò, inoltre, che, già al momento della partenza, gli animi dei lavoratori erano caldi e la tensione sfociò in episodi di violenza fra alcuni operai. Tale agitazione era dovuta essenzialmente a due motivi: il decreto legislativo firmato a dicembre 2012 che permetteva due anni di cassa integrazione e la mobilità per 640 operai, che con la vecchia legge pensionistica avevano il diritto alla pensione; e, in conseguenza di questo decreto, il drastico calo dei partecipanti alle manifestazioni inerenti alla vertenza Fiat di Termini Imerese. Questa profonda spaccatura del fronte operaio è stata vissuta come una specie di tradimento da parte di tutti quei lavoratori che, non avendo i requisiti minimi per una pensione alla fine del 2013 saranno definitivamente licenziati dall’azienda torinese.
Mentre Michele ed io parliamo di questi fatti, il corteo si rimette in marcia. Via Cavour, dove si trova una sede della Banca d’Italia, è il nostro primo passaggio. Qui un gruppetto di operai si stacca dal corteo e si avvicina al portone d’ingresso, dove un carabiniere, con la faccia scocciata e quasi implorante, tenta di dissuadere i manifestanti mentre alcuni impiegati della banca sprangano il portone d’ingresso. Il carabiniere fa più volte di no con la testa e poi uno dei manifestanti, voltandosi verso il corteo, urla: “Picciotti amuninni ca picciuli pi nuatri un ci n’è![1]
Il corteo riparte e la prossima tappa è il Teatro Massimo. Qui sulla scalinata del famoso monumento ci si dispone tutti per la fotografia di gruppo. Come una scolaresca in gita, diversi operai mi chiedono di scattargli una fotografia un po’ per una sorta di narcisistica velleità e un po’ perché vogliono testimoniare la loro partecipazione a un momento importante per la vertenza.
Ci rimettiamo in marcia su via Maqueda fino al Palazzo delle Aquile, sede dell’ufficio del sindaco di Palermo, dove un assordante boato di fischi e urla rende tutto molto confusionario e caotico. Anche qui c’è chi si fa fotografare con striscioni davanti alla cintura di poliziotti che ostruiscono l’ingresso del Comune.
Poi di nuovo via Maqueda, fino a Palazzo Comitini, sede della Provincia di Palermo, e altro coro di fischi e urla e di nuovo in marcia fino alla stazione centrale e poi su Corso Tukory, in direzione di Palazzo d’Orleans. Qui intravedo in mezzo alla folla Francesco e mi avvicino. Mi chiede come sto e bonariamente mi accusa di farmi “sempre i cazzi degli altri”. Iniziamo a parlare di quegli altri e della situazione della vertenza che si trova sostanzialmente a un fase di stallo. Il primo dicembre 2011, infatti, i sindacati, organizzazione di cui fa parte anche Francesco, avevano firmato un accordo con l’azienda, alla presenza dell’allora ministro del lavoro e del ministro allo sviluppo economico. In tale accordo si prevedeva, fra le altre cose, anche l’ingresso nel sito di Termini Imerese, di DR Motor, azienda italiana che assembla autoveicoli e che fa capo a Massimo di Risio. Questa azienda, individuata dall’agenzia governativa per lo sviluppo del Mezzogiorno, Invitalia, in seguito dimostrò l’impossibilità di far partire gli investimenti per rilevare il sito termitano a causa di una grave mancanza di liquidità. Già in sede di contrattazione, al momento della firma dell’accordo del primo dicembre 2011, i sindacati avevano mostrato perplessità per l’ingresso di questo nuovo investitore. Tuttavia, tale perplessità fu lasciata da parte in nome del fatto che, senza un’alternativa imprenditoriale alla Fiat, non sarebbero partiti gli incentivi per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e mobilità). In sostanza, come mi disse Francesco durante la manifestazione: “Se a Termini non possiamo fare una fabbrica di automobili, almeno possiamo fare una fabbrica di cassaintegrati.”
Ma che cosa è questa cassa integrazione?[2] Come si configura, al livello antropologico, questo sostegno ai lavoratori nel momento in cui si protrae per un tempo medio-lungo?
Secondo Hannah Arendt la condizione umana si fonda su tre pilastri: il lavoro, l’opera e l’azione. Secondo l’autrice:

L'attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte, alimentate nel processo vitale della stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest'ultima è la vita stessa.
L'operare è l'attività che corrisponde alla dimensione non-naturale dell'esistenza umana, che non è assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve, non è compensata da esso. Il frutto dell'operare è un mondo "artificiale" di cose, nettamente distinto dall'ambiente naturale. Entro questo mondo è compresa ogni vita individuale, mentre il significato stesso dell'operare sta nel superare e trascendere tali limiti. La condizione umana dell'operare è l'essere-nel-mondo.
L'azione, la sola attività che metta in rapporto gli uomini senza mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l'Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è specificatamente "la" condizione - non solo la conditio sine qua non , ma la conditio per quam - di ogni vita politica[3].

Ciò significa che, per l’autrice, il lavoro si configura come un processo mirato a soddisfare le necessità degli uomini ed è soggetto alla trasformazione dei tempi e, soprattutto, all’usura dello scorrere della vita. L’operare, pur essendo una forma particolare di lavoro, tende invece a creare un prodotto definitivo che, per la sue caratteristiche di finitizza e immutabilità, tenta di sottrarre all’usura del tempo i prodotti dell’uomo dando a quest’ultimo la percezione, se vogliamo illusoria, dell’eternità e dell’immortalità (l’esempio classico e magistrale di un tale prodotto sono le opere d’arte). Infine l’azione è un’immersione nelle cose del mondo che mette gli uomini in relazione fra loro senza nessuna mediazione da parte dei costrutti materiali, come avviene nel caso del lavoro e dell’opera, nell’estremo tentativo di assoggettare, in qualche modo, quello scorrere del tempo che usura le esistenze.
Se si guarda alla condizione di cassaintegrati seguendo la speculazione di Arendt ci si accorge di quanto la cassa integrazione, lo ripeto, protratta per un tempo abbastanza lungo, provochi un mutamento profondo alla condizione umana. I cassaintegrati qui presi in considerazione, infatti, sono persone che, pur percependo un salario (anche minimo e limitato nel tempo) non esercitano alcun lavoro, non prendono parte a nessun processo produttivo. Si aggiunga a ciò che, nella maggior parte dei casi, essi non svolgono nessun altro lavoro non perché non ne abbiano le capacità o i mezzi, bensì per due ragioni fondamentali: la sospensione della cassa integrazione nel momento in cui dovessero svolgere un lavoro; il venir meno di un senso della propria attività. In quest’ultimo caso, infatti, ho registrato la mancanza di una motivazione forte che spinga quegli uomini a creare opere, a rimettersi in gioco perché, secondo loro, comunque essi non hanno nessuna speranza di sottrarsi alla loro condizione liminoide di cassaintegrati o esodati. In questo modo, in quello che rimane della comunità operaia di Termini Imerese, viene meno anche la necessità di creare delle opere che rimangano perché troppo presi dalla loro condizione di assoggettamento alle necessità della vita e del suo scorrere.
L’ultimo baluardo cui possono aggrapparsi è l’azione politica. In questo senso, la manifestazione del 5 aprile rappresenta un mezzo attraverso cui ri-creare una comunità. Non c’è nessuna catarsi in questo corteo, nessuna purificazione né liberazione. C’è la ricerca di risposte, la volontà di creare un senso e, in definitiva come nei riti di ribellione analizzati da Max Gluckman, la necessità di aggrapparsi a un ordine sociale. L’unico che noi, padri e madri di famiglia, cassaintegrati, precari ed esodati, noi tutti presi in questo scorrere inarrestabile della vita, in questa terrificante condizione di esseri-nel-mondo riusciamo a concepire. 



[1] “Ragazzi, andiamocene perché soldi per noi non ce ne sono!”
[2] Tengo subito a chiarire il fatto che non metto in discussione in alcun modo l’utilità e l’importanza di un simile ammortizzatore sociale, soprattutto per la sopravvivenza dei lavoratori che fanno parte di aziende in difficoltà economiche.
[3] Arendt, 1991, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano: 45

sabato 5 ottobre 2013

Storie di fabbrica. Michele e Francesco: due uomini in mare

In una domenica mattina del mese di maggio percorro in automobile il viale antistante lo stabilimento di Termini Imerese. Mi godo il paesaggio del mare, calmo e placido, accarezzare dolcemente la terra mentre Michele guida la sua Punto. È un operaio della Lear, l’azienda che, in uno stabilimento di circa settanta dipendenti attiguo alla Fiat, produce e confeziona i sedili delle automobili prodotte a Termini Imerese. Ha quarantadue anni e attualmente è fra gli operai in cassa integrazione che nell’ottobre del 2013 verranno licenziati dalla sua azienda in conseguenza della chiusura della Fiat. Conosco Michele da circa dieci anni poiché insieme abbiamo lavorato in un ristorante di Buonfornello, la contrada marinara che sorge fra Termini Imerese e Campofelice di Roccella. Michele ha sempre accompagnato la sua attività di operaio a quella di cameriere. Dal 1987, anno in cui è assunto dalla Lear, ha integrato la sua paga di operaio con quella di cameriere, svolgendo quest’ultima attività sempre e comunque in nero. Nella fase attuale della sua vita lavorativa, Michele ha intensificato la sua attività legata alla ristorazione continuando ad esercitarla in nero per evitare la sospensione della cassa integrazione, che, tuttavia, non percepisce da circa quattro mesi a causa della mancanza di liquidità della sua azienda, incapace quest’ultima di anticipare il costo di questo ammortizzatore sociale.
Anche in questa assolata domenica mattina, con il mare piatto al fianco e il sole in faccia, io e Michele stiamo percorrendo la strada che porta da Termini Imerese a Buonfornello per recarci al ristorante dove affronteremo le nostre 18 ore di lavoro[1]. Nei pressi della strada ferrata Palermo-Messina, Michele accosta l’auto, ingrana la marcia indietro e ritorna sui nostri passi di una cinquantina di metri. Gli chiedo cosa sta succedendo e il mio collega risponde lapidario: “C’è Francesco”. Mi giro indietro e vedo quest’ultimo, uno dei leader sindacali della vertenza Fiat, con un paio di scarpe impolverate e sporche di terra, un paio di jeans e una camicia vecchi, luridi e rattoppati qua e là, armeggiare con un bidoncino di benzina intorno ad una vecchia motozappa. Vedendolo mi ricordo delle volte in cui abbiamo parlato del suo passato prima dell’ingresso in Fiat, delle sue metafore tratte dal mondo contadino per illustrarmi le varie fasi della vertenza e ho la netta sensazione che l’operaio, il sindacalista attento, competente, combattivo e razionale non ha mai abbandonato ciò che era e, forse nell’attuale fase di dismissione dello stabilimento, con la pressione che su questi portavoce dei lavoratori esercitano le migliaia di dipendenti e con lo sgretolarsi del tessuto economico e sociale di Termini Imerese e di tutto il comprensorio, Francesco ritornando, anche solo saltuariamente al suo primo lavoro, recuperi un contatto con il passato, con la sua identità che i lavoratori più giovani di lui e senza nessuna qualifica professionale non riescono a costruire.
Lo chiamiamo da lontano e ci avviciniamo. Ci chiede come mai ci troviamo da quelle parti e gli spieghiamo che, per sbarcare il lunario, siamo costretti a fare i camerieri nei fine settimana. A questo punto un’ombra di tristezza attraversa il viso di Francesco e intuisco che è come se, in qualche modo, la presenza di Michele, gli facesse sentire addosso la responsabilità della vertenza, della sorte e del benessere di alcune centinaia di persone e cerco di cambiare discorso dicendogli che non sapevo che quel terreno, che costeggio da dodici anni a questa parte, fosse suo. Mi risponde che, prima di entrare in Fiat, nel 1979, quella era la sua unica fonte di reddito. Coltivava ortaggi, verdura e produceva olio che venivano poi venduti nel mercato ortofrutticolo di Termini Imerese. L’attività contadina è diventata secondaria con l’assunzione in Fiat e con l’insorgere delle prime incombenze sindacali. Per un certo periodo di tempo ha continuato a coltivare la terra, ma sempre in quantità minore e con un numero di prodotti ridotto. Tuttavia, rinunciare ad una entrata economica, seppure esigua, era difficile e allora, per un certo numero di anni, ha invertito il flusso commerciale: piuttosto che vendere i suoi prodotti al mercato ortofrutticolo locale, ha cominciato a comprarli da questo e a rivenderli all’angolo della strada ai villeggianti che, nei fine settimana d’estate, transitavano per le vicine località balneari, spacciando quei prodotti come coltivati da se stesso. Poi gli impegni sindacali sono diventati sempre più gravosi, ha aperto un CAF e, di conseguenza, per alcuni anni ha affittato il suo terreno ad un albanese. Solo da qualche mese, in concomitanza della chiusura dello stabilimento Fiat, ha ricominciato a coltivare la sua terra.
Michele, tuttavia, comincia a diventare impaziente e, a un certo punto, quando Francesco fa un veloce cenno alla chiusura della fabbrica, ne approfitta per chiedere al sindacalista: “Francé, notizie n’aviemu?”[2]. Francesco, con gli occhi a terra, risponde di no che “i notizi su sempri chiddi![3] ovvero: non ci sono notizie. Poi Francesco, girandosi verso il suo terreno, in direzione dello stabilimento e della città di Termini Imerese, comincia a parlare del periodo in cui, fino agli inizi degli anni Settanta, la Fiat, la Magneti Marelli, la Lear, la Bienne Sud e tutte le altre fabbriche più o meno grandi non esistevano. L’unica parvenza di industrializzazione moderna nel territorio era la centrale Enel, istallata all’inizio degli anni Sessanta. La pianura, attualmente occupata dalla zona industriale, era allora un’unica distesa di carciofi e ulivi. Quello sguardo di Francesco su quella piana è come un grande punto interrogativo su ciò che sarebbe potuto essere, su cosa sarebbe successo se la Fiat non fosse mai arrivata.
Nel frattempo Michele tace. Aspetta un cenno una parola, ma ormai entrambi gli uomini, l’uno di fronte all’altro, sono persi nei propri interrogativi, nei rimpianti e nelle attese: due uomini frantumati e accomunati dalla paura del futuro, dall’incertezza strisciante e profonda che ormai si è impossessata di loro come di tutti i lavoratori di questo paese sempre invischiato in una imperitura crisi d’identità e alle prese con ataviche emergenze sempre uguali e sempre nuove. Sullo sfondo la piana, le fabbriche e la città, il monte San Calogero e questo mare troppo calmo, troppo viscido.


[1]  Nell’ambito della ristorazione locale c’è una netta distinzione, simbolica e sostanziale, fra chi lavora come cameriere fisso (u fissu), come cameriere extra ma sempre nel medesimo ristorante (estra-fissu), come nel caso mio e di Michele, e chi, invece, come cameriere extra, per così dire, itinerante, che cioè lavora in diversi locali della zona quando e dove c’è più richiesta (estra). Generalmente gli estra-fissu e gli estra sono persone che svolgono altre attività, come operai, impiegati e studenti, e che nel tempo libero si guadagnano da vivere o integrano i loro stipendi prestando servizio nei locali della zona. Questi lavoratori vengono pagati di più rispetto ai fissi (rispettivamente circa 60/65 euro per 8 ore di lavoro a fronte dei 30/40 euro per una giornata lavorativa) e tendono a svolgere la loro attività in nero, spesso per una propria richiesta legata alla pressione fiscale. Generalmente gli estra e gli estra-fissi tendono a concentrare molte ore di lavoro nei pochi giorni liberi che hanno a loro disposizione per tesaurizzare quanto più possibile il loro tempo. È usuale che essi tendano spesso a fare le doppie, cioè a coprire il pranzo e la cena del ristorante con le relative complesse preparazioni che iniziano alle 9,00 del mattino fino alla chiusura del locale, che non avviene mai prima dell’una del mattino e comunque spesso si protrae fino a notte fonda. In questi casi si dà vita ad una vera e propria estenuante resistenza fisica, dal momento che gli estra-fissi e gli estra lavorano senza interruzione di sorta per tutta la durata della loro giornata, saltando spesso sia il pranzo che la cena. Naturalmente le doppie sono ambite da questa categoria di camerieri perché vengono pagate il doppio (circa 120/130 euro) rispetto ad un normale servizio. A questa paga vanno aggiunte le mance dei clienti che fanno in modo che in 16-18 ore di lavoro il salario degli estra e degli estra-fissi arrivi a circa 140-150 euro.
[2]              Francesco notizie [della vertenza] ne abbiamo?
[3]              “Le notizie sono sempre quelle!” I due uomini si riferiscono, in questo caso, a notizie che dovrebbero provenire da almeno due fronti. Il primo riguarda il processo di re-industrializzazione, in ritardo di un anno, che l’azienda DR Motor dovrebbe attuare, ma a cui manca la liquidità economica necessaria per coprire gli investimenti. Il secondo fronte riguarda l’ambito politico-istituzionale con la presa in carico da parte dell’assessore regionale Linda Vancheri, per conto del Presidente Regionale Rosario Crocetta, del compito di ricercare altri investitori capaci di installare attività produttive nell’area industriale di Termini Imerese.

sabato 28 settembre 2013

Storie di fabbrica «Parravi mali? Na Santa inquisizione, nna cruci e t'abbruciavanu!»

Il Bolscevico arriva sulla sua Panda bordeaux vecchio modello. Non l'ho mai visto prima. L'ho solo sentito per telefono, ma quando scende dall'auto capisco che è l'uomo che sto aspettando. Cappello in pile nero da cui spuntano ciocche di capelli anch'essi neri con dei riflessi argentei, giubbotto sportivo nero, pantaloni da tuta e scarpe da corsa. Ha un fisico asciutto, il Bolscevico, un viso in cui i cinquant'anni di questo operaio hanno lasciato un solco: attorno agli occhi, sulla fronte, fra il contorno della bocca e le guance è un continuo spalancarsi di valli, di righe, di solchi e per ognuna di queste rughe sarebbe possibile scrivere una storia. La barba nera e incolta su cui spunta qualche pelo bianco mi ricorda vagamente Er Monnezza, il famoso personaggio di film polizieschi degli anni Settanta interpretato da Tomas Milian. Mi viene dritto incontro, mi stringe la mano e mi chiede di seguirlo.
Arriviamo nella locale sede di un noto sindacato, ci sistemiamo nella sala delle riunioni e il Bolscevico inizia a raccontarmi la sua storia.
Quarantanove anni di cui gli ultimi trentaquattro passati a lavorare in varie realtà della zona. Il primo lavoro che ha svolto fu quello di operaio in una fabbrica di ceramica che da un giorno all'altro i lavoratori trovarono chiusa: i proprietari avevano delocalizzato l'azienda e smontato tutti i macchinari nel giro di un fine settimana all'insaputa dei lavoratori. È durante questa occasione che il Bolscevico entrò in contatto con il sindacato. Poi è stato muratore, imbianchino e, infine, alla fine degli anni Ottanta, operaio nel locale stabilimento Fiat. Nel frattempo, ha affiancato alla sua attività sindacale anche l'impegno politico nei partiti della sinistra. In fabbrica ha lavorato per circa venticinque anni in vari reparti della linea di montaggio e, a causa del suo impegno politico-sindacale e della “pericolosità” della sua attività di rappresentante dei lavoratori, è stato sempre spostato da un reparto all'altro per evitare che riuscisse a creare uno zoccolo duro di contestazione nei confronti dell'azienda. Come lui stesso racconta: «In questi anni mi sono alternato nel... i primi anni ero alla parte meccanica e c'era un reparto che si chiamava la giostra. C'erano due linee praticamente: una che camminava sotto, con i motori, noi l'alzavamo dalla scocca che veniva sopra. Eravamo chiamati i minatori del... perché era un posto schifosissimo dove tu assemblavi motori, tutta la parte sotto-scocca della macchina. Poi negli anni ho cambiato vari reparti, sono stato in verniciatura sempre in catena di montaggio, poi in lastratura in catena di montaggio, poi sono tornato di nuovo al montaggio mi sono alternato sempre anche... » «Sempre sulla linea?» «Sì, perché io ero anche un soggetto scomodo per l'azienda per il fatto che ho sempre militato in politica, nel sindacato e quindi rompevo un po' i coglioni e quindi mi emarginavano, mi cambiavano spesso di squadra».
Il Bolscevico, però, prima di essere un militante politico, un attivista sindacale e un operaio della Fiat, almeno fino al prossimo 31 dicembre, è anche un uomo pieno di ricordi legati al passato e al luogo in cui sorge lo stabilimento. «Io nasvivi nto '63, me patri o '70 trasiu a Fiat e noi abbiamo avuto, come si dice, un innalzamento sociale... me patri di ncampagna vineva, nuatri pani e cipudda maciavamu va. Me patri trasiu a Fiat e allora gli stipendi si aggiravano intorno alle 100.000 lire al mese; un impiegato in banca nni pigghiava 80. Me patri s'accattò televisioni, lavabiancheria, frigorifero. A televisioni, nno quartieri, l'aviamu sulu nuatri e i cristiani si virevanu a televisioni e i partiti dintra a me casa, ca pariamu a o stadiu... Per farti capire che, la gente come me, che ha avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat, picchì a Fiat ti ha consentito di fariti na casa, me patri s'accattò l'850 che allora, l'850 era... chi t'ha diri, un Mercedes di ora... si caminava ca Topolina, ca 600, insomma era un machinuni. Perciò hai avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat... Minchia, regali ai picciriddi, pi Natali, circhi, cinema... cose alla grande, perciò la mia generazione, che è cresciuta con questa fase, gli anni '70, gli anni '80, unni a Fiat ca a Termini era tutto. Minchia, guai ai cristiani ca ci tuccavi... parravi mali da Fiat? Minchia, c'avi a fari... na santa inquisizione, nna cruci e t'abbruciavano: o rogo ti mittevano»1.
Rendere l'idea di un luogo di lavoro scevro da problemi, conflitti, ingiustizie e lotte è fuorviante e la romanticizzazione di un lavoro come quello di fabbrica non è per nulla la mia intenzione, ma credo che se si voglia capire la questione della vertenza Fiat di Termini Imerese, come di qualsiasi altra vertenza, è necessario cercare di inquadrare la questione tenendo conto delle varie posizioni e istanze dei soggetti che sono coinvolti nella stessa vertenza.
Il Bolscevico, così come molti altri lavoratori dello stabilimento, ha conosciuto senza ombra di dubbio quello che lo stesso informatore definisce come un innalzamento sociale, cioè un miglioramento delle condizioni economiche, sociali ed esistenziali grazie all'arrivo della Fiat nel territorio termitano. In questo senso è possibile affermare che lo stabilimento di automobili è stato un luogo che, grazie alla sua funzione di produzione materiale, è riuscito a creare un certo grado di benessere. Quest'ultimo si è palesato con l'arrivo degli elettrodomestici, delle automobili e con la creazione di reti sociali diverse rispetto a quelle che si esperivano e si esercitavano in un contesto di tipo non industriale2. Ma tali elettrodomestici, oltre ad essere degli strumenti di uso quotidiano, erano anche dei simboli da ostentare, davanti alla propria comunità, del proprio innalzamento sociale. Ed è a questo punto che la fabbrica da luogo dove si producono merci, diventa luogo in cui si producono simboli e diventa simbolo essa stessa: di un innalzamento sociale, di un benessere economico, di una soddisfazione personale.
È facile immaginare, a questo punto, cosa è potuto accadere con la chiusura e la conseguenza dismissione dello stabilimento Fiat. Quando, verso la fine della nostra conversazione, chiedo al Bolscevico cosa fa in questo momento è così che mi risponde: «Ma veramente non lo so cosa faccio, picchì mancu u sindacalista fici chiù».
Il Bolscevico: un uomo di mezza età che ha percorso il cammino di ascesa spianato dalla Fiat, che ha sempre trovato nell'attività politico-sindacale un modo per essere partecipe all'interno della propria comunità e un tratto identitario forte tanto da fargli guadagnare il suo soprannome, nella fase di dismissione attuale, non sa più cosa sta facendo. Si trova smarrito a fare i conti con uno stabilimento in dismissione che fino qualche anno fa era il simbolo di un benessere difficile, faticoso, ma possibile e ora è l'emblema di un futuro sospeso, incerto e smarrito ancora tutto da digerire, metabolizzare, rifare.

1«Io sono nato nel '63, mio padre nel '70 è entrato in Fiat e noi abbiamo avuto, come si dice, un innalzamento sociale... mio padre dalla campagna veniva, noi mangiavamo pane e cipolla. Mio padre è entrato in Fiat e allora gli stipendi si aggiravano intorno alle 100.000 lire al mese; un impiegato in banca ne guadagnava 80. mio padre si è comprato la televisione, la lavabiancheria, il frigorifero. La televisione, nel quartiere, ce l'avevamo solo noi e le persone guardavano la televisione e le partite a casa mia, che sembravamo allo stadio... Per farti capire che, la gente come me, che ha avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat, perché la Fiat ti ha consentito di farti una casa, mio padre si è comprato la 850 che allora, la 850, era... che ti posso dire, un Mercedes di ora... si camminava sulla Topolina, con la 600, insomma era un macchinone. Perciò hai avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat... Minchia, regali ai bambini, per Natale, circhi, cinema... cose alla grande, perciò la mia generazione, che è cresciuta con questa fase, gli anni '70, gli anni '80, dove la Fiat qui a Termini era tutto. Minchia, guai alle persone che ci toccavano... palavi male della Fiat? Minchia, cosa doveva fare... una santa inquisizione, sulla croce e ti bruciavano: al rogo ti mettevano».
2È il caso, per esempio, delle riunioni di vicinato per guardare la televisione.

venerdì 20 settembre 2013

La pesante soggettività dell'etnologo

In un testo del 1957, Georges Balandier scriveva:

Se moi est haïssable, occorre fare eccezione per l'etnologo. Egli deve collocare la propria testimonianza, che procede non tanto da una tecnica esperta quanto da molteplici interferenze fra la civiltà osservata e il suo osservatore. Il suo lavoro sul campo implica un'estrema sensibilità, un continuo sforzo di adattamento. È anche necessario ch'egli scopra se stesso nel momento stesso in cui studia i risultati della sua ricerca (Balandier G., 1957, Afrique ambigüe, Parigi: 14-15).

Quello che segue è un altro stralcio del mio diario di campo in cui tento di riflettere sulle dinamiche di fabbrica e su come queste avvolgono e fagocitino il ricercatore. Questo graduale assorbimento, unitamente alla fase di analisi dei proprio dati e del proprio ruolo nel contesto di campo, permettono di mettere in luce aspetti del carattere del ricercatore che in altri contesti non sarebbero mai potuti emergere. In questo modo è anche possibile evidenziare le dinamiche che si instaurano fra osservatore e osservato, fondamentali per un processo di conoscenza come quello etnoantropologico in cui il laboratorio empirico è lo scorrere incessante e frenetico della stessa vita.

Torino, 10/08/2013
Comincio a codificare sempre di più le dinamiche che agitano la fabbrica e a rimanerne imbrigliato, mio malgrado. Ci sono giorni che non riesco tollerare la pesantezza dei discorsi dei miei colleghi, che vertono sempre sulla nostra condizione precaria, sugli abusi e i soprusi che siamo costretti a ingoiare. Pensare a tutto questo, soprattutto quando sono stanco, mi destabilizza.
Il fatto che riesca a codificare quelle dinamiche implica che anche io comincio a farne parte, a rimanere imbrigliato nel movimento, sempre diverso e sempre uguale, provocato dallo scontro/incontro dei soggetti in società. Ho notato di avere due modi di base con cui rapportarmi agli altri, in questa situazione: il primo è simpatico e scapestrato e il secondo, all’estremo opposto, è schivo e defilato.
Nel primo caso, durante i pochi minuti di pausa tendo a raccontare aneddoti divertenti della mia vita. Spesso faccio questo in siciliano, anche se molte parole qui non vengono capite. In questo caso il mio modo per intrattenere una relazione con l’altro passa attraverso le risate e l’ilarità: mostrarmi come un ragazzo leale, ma che conosce il mondo e sa il fatto suo. Utilizzo il siciliano e mi sono reso conto che, nella cerchia di torinesi che frequento, questo dialetto è percepito come ilare e, volendo esagerare, “esotico”. Dal mio punto di vista, questo dialetto è stato da sempre il mio primo approccio al mondo, la lingua che mi identifica, non per una questione di orgoglio posticcio e mieloso o di fierezza meridionalista che non mi appartiene. Ma perché questo dialetto è il mio strumento primo e di base con cui sono cresciuto e tramite cui ho imparato a conoscere e discretizzare il mondo. Wittgenstein ha scritto che: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» intendendo in questo mondo che i fatti che accadono producono altri fatti in una serie infinita, ma ciò che rimane finito, e che quindi rappresenta il confine del mondo di ognuno di noi, è la nostra lingua; il modo con cui noi discretizziamo il mondo: il siciliano è stato il mio primo limite del mondo e quello da cui riparto ogni volta che posso; ogni volta che sento l'inconscia necessità di avere un punto fermo.
Il secondo modo di approcciarmi agli altri è molto più ruvido e aggressivo. Tendo a emarginarmi e a ricercare scampoli solitudine. In questi casi, il silenzio è il mio primo attrezzo di comunicazione e, se proprio devo parlare, di solito li faccio per mandare a quel paese qualcuno.
È strano vedere come dei modi del tuo essere con cui hai convissuto per tutta una vita emergano in una situazione del tutto nuova, in cui nessuno ti conosce, sa come eri prima e come sei adesso: una situazione in cui i punti fermi te li devi cercare da solo.
Cosa rimane quando tutto è lontano? Quando ti guardi nudo allo specchio? Rimane ciò che sei veramente, ciò che hai imparato a essere e rimangono i tuoi modi di essere-nel-mondo che, come punti luminosi lungo un percorso oscuro, indicano la via da seguire.