Racconti dal mondo precario

sabato 3 agosto 2013

Corpi in fabbrica. Assoggettamento e resistenza (I parte)

Nel post precedente ho cercato di concentrare l'attenzione su come il processo produttivo industriale investa e agisca anche e principalmente sui corpi dei lavoratori, partendo dalla mia diretta esperienza. Nel presente post continuo su quella traccia di analisi introducendo i casi etnografici da me riscontrati e approfondendo le riflessioni che vertono sul rapporto corpo/fabbrica. Ciò che tenterò di analizzare è il fatto che i corpi non sono solo i luoghi passivi dell'assoggettamento del processo produttivo neocapitalistico, ma anche i luoghi primari in cui quei processi vengono contrastati attraverso, quelli che in seguito, saranno presentati come atti di micro-resistenza a quei processi.

In un caldo pomeriggio di luglio, nella fabbrica dove lavoro, è stata indetta una riunione con tutto il personale dell’azienda. Oggetto della riunione era informare i lavoratori che un operaio, di cui naturalmente non è stato fornito il nome per il rispetto della privacy, ha contratto la tubercolosi polmonare. È stato comunicato, inoltre, che all’interno dello stabilimento è cominciata la procedura di profilassi e che potrebbero essere eseguiti esami anche ai colleghi che lavorano a stretto contatto con l’operaio ammalato. Mentre il capo del personale illustrava la questione, noi tutti ascoltavamo con rispettoso silenzio. Di fronte a me si trovava un gruppo di operai, quattro o cinque in totale, tutti fra i trenta e i trentasei anni e con contratti a tempo indeterminato. I capelli rasati, le barbe lunghe, i fisici palestrati e interamente ricoperti dai tatuaggi rendevano questo gruppo di operai diverso rispetto a tutto quello che li circondava. Essi non indossavano mai la tuta da lavoro e le scomode scarpe antinfortunistiche, bensì abiti sportivi e scarpe da tennis. Mentre noi tutti, interinali a scadenza, giravamo per lo stabilimento su muletti e commissionatori con l’ansia di raggiungere la soglia minima di produzione (150 linee da prelevare), era possibile vedere questi ragazzi stare placidamente seduti sui loro carrelli, al centro della piazza delle spedizioni, e chiacchierare per interi quarti d’ora e più. Guardandoli mi venivano spesso in mente i pirati o le gang di motociclisti duri e con le arie truci dei film americani.
La questione dell’operaio tubercolotico e la visione di questi lavoratori sui generis porta al centro della riflessione sulle pratiche lavorative, la questione del corpo e di come attraverso di esso passano tutte le nostre esperienze e, allo stesso tempo, di come questo sia il mezzo principale di accesso al mondo e il simbolo primario di noi stessi all’interno della società e, nel caso qui in esame, nell’ambito dei contesti di lavoro industriale.
Nel caso dell’operaio malato, la tubercolosi è il segno che il corpo di quell’uomo è diventato inabile al lavoro e sostanzialmente inutile ai processi produttivi formali del neocapitalismo. La tubercolosi, però, può essere trasmessa ai corpi degli operai che lavorano a stretto contatto con il malato. In questo caso, la trasmissione diventa anche il segno visibile delle nostre relazioni sociali. Essa traccia una mappa di quella che gli antropologi hanno definito un network, cioè una rete di relazioni sociali, più fluide e cangianti delle strutture, che caratterizzano i rapporti interindivuduali nelle grandi città postmoderne (Hannerz 1980: 163-201). È anche attraverso il contagio che la mappa delle relazioni sociali si rende visibile e che è possibile oggettivare chi siamo, cosa facciamo e a quale comunità apparteniamo.
Nel caso, invece, degli operai tatuati, entrati in fabbrica poco più che adolescenti, il corpo, scolpito dalla palestra e disegnato dai tatuaggi, è il mezzo attraverso cui esprimere la propria diversità. Attraverso le decorazioni corporali, essi sembrano dire a tutti quelli che li circondano: “Siamo qui dentro come tutti voi, ma non siamo come voi!”. È profondo il mio sentimento di empatia, in questo caso, per averlo provato io stesso, sebbene in un grado infinitamente più basso e transitorio rispetto a loro. Nel mio caso, infatti, mi è bastato indossare un paio di jeans, invece che la tuta da lavoro perché sporca, per percepirmi ed essere percepito diverso dai miei colleghi. Mi è accaduto spesso, infatti, di essere oggetto di battute di spirito da parte degli altri lavoratori con cui intrattenevo un rapporto confidenziale, i quali scherzosamente mi dicevano: “Oggi ci siamo vestiti da fighettini!”.
È anche attraverso questo modo di abitare i corpi, nell’accezione di Pierre Bourdieu (1972: 259-261), che si può riscontrare uno dei mezzi per fare fronte alla alienazione e alla omologazione, che con la modificazione del sistema di produzione da una fase taylorista ad una di flessibilizzazione, ha assunto caratteri sempre più pervasivi. Come scrive, infatti, Federico Chicchi:

Il farsi rilevante degli aspetti di prossimità personale nei rapporti organizzativi, l’entrare i gioco dunque del piano razionale e strategico della produzione di aspetti relazionali e comunicativi che prima non partecipavano della vita produttiva, pone le basi per una nuova struttura di definizione del valore del lavoro. Il divenire rilevanti, sul piano stesso dell’agire strategico e strumentale, di aspetti intimi della persona, delle sue capacità stesse di governare il suo rapporto con l’ambiente e con i suoi abitanti più prossimi appare, infatti, oggi sempre di più un elemento imprescindibile dell’azione di comando sul lavoro. Questo processo di “approfondimento” verticale del rapporto produttivo sulla persona definisce quindi e di conseguenza anche una nuova struttura del potere organizzativo. È il tema che in filosofia politica è stato definito, tramite il lessico foucaultiano, come il passaggio dal governo alla governamentalità, intesa quest’ultima come una nuova e pervasiva tecnica di controllo delle condotte sociali che si differenzia dalle tradizionali azioni di disciplina gerarchica dell’agire sociale e che si caratterizza, tra l’altro, per il mettere a valore non solo gli aspetti meramente operativi e professionali del fare sociale, ma ogni aspetto della vita umana (Chicchi 2008: 118).

È in tale ottica che il corpo, al di là di una visione che lo vede come mero oggetto di assoggettamento, si configura come luogo in cui le dinamiche di potere fra datore di lavoro e lavoratore trovano il loro primo ambito di negoziazione. Nel corso di questo scritto si prenderanno in esame tre casi in cui il corpo è centrale nella questione della Fiat di Termini Imerese.
Il primo caso riguarda la procedura di assunzione in fabbrica che ha il suo incipit e il suo punto fondamentale nel momento delle visite mediche ai fini dell’assunzione. In questo caso, le visite, oltre che accertare lo stato di salute del lavoratore e la sua idoneità a svolgere determinate mansioni, ha anche lo scopo di fare percepire al lavoratore che il suo corpo, nel momento dell’assunzione, diventa, per un certo grado, anche di proprietà dell’azienda e in quanto strumento aziendale deve essere trattato con cura, rispettato e, soprattutto, preparato ad adattarsi al lavoro.
Il secondo caso, invece, è volto all’analisi dei processi attraverso cui il corpo è adattato al lavoro, allo sforzo che il soggetto lavoratore è costretto a operare per adattarsi ai lavori usuranti e agli incidenti che possono accadere nel momento in cui tale sforzo supera un certo limite, strettamente soggettivo.
Il terzo caso, infine, intende indagare la vicenda di un gruppo di operai dello stabilimento Fiat che, soprattutto in passato, tendevano, attraverso il cibo e il pasto comunitario all’interno dello stabilimento, a mettere in pratica atti di micro-resistenza al potere omologante e alienante della fabbrica.
Nei primi due casi la descrizione, oltre che basata su alcune testimonianze di operai Fiat attualmente in cassa integrazione, è accompagnata anche da una esperienza diretta delle vicende legate al corpo nei contesti industriali. Ciò perché ho ritenuto indispensabile capire fino in fondo e sulla mia pelle alcune questioni, profondamente intime, legate ad una dimensione la cui esperienza è difficilmente traducibile in parole. Il terzo caso, invece, è strettamente legato ad una dimensione peculiare ed è per questo che è basato sulle sole narrazioni degli operai dello stabilimento Fiat ormai in dismissione. Tuttavia, anche in questo caso, la mia diretta esperienza del lavoro di fabbrica e dei tempi e dei ritmi che questo impone, mi ha permesso di valutare come quegli atti che i soggetti, seppure consapevoli di trasgredire ad alcune regole, percepivano come normali, assumono i caratteri di una vera e propria contestazione e di una fortissima affermazione identitaria.

Riferimenti bibliografici
Chicchi  F., 2008, Riflessioni di sintesi: pluralizzazione dei regimi di azione e capitalismo di prossimità in La Rosa M., Borghi V., Chicchi F. (a cura di), Le grammatiche sociali della mobilità. Una ricerca sulle condizioni del lavoro nella provincia di Bologna, Franco Angeli, Milano, pp. 107-121.
Hannerz U., 1980, Exploring the city. Inquiries towards an urban anthropology, Columbia University Press, New York.
Bourdieu P., 1972, Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Géneve.


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