Racconti dal mondo precario

sabato 28 settembre 2013

Storie di fabbrica «Parravi mali? Na Santa inquisizione, nna cruci e t'abbruciavanu!»

Il Bolscevico arriva sulla sua Panda bordeaux vecchio modello. Non l'ho mai visto prima. L'ho solo sentito per telefono, ma quando scende dall'auto capisco che è l'uomo che sto aspettando. Cappello in pile nero da cui spuntano ciocche di capelli anch'essi neri con dei riflessi argentei, giubbotto sportivo nero, pantaloni da tuta e scarpe da corsa. Ha un fisico asciutto, il Bolscevico, un viso in cui i cinquant'anni di questo operaio hanno lasciato un solco: attorno agli occhi, sulla fronte, fra il contorno della bocca e le guance è un continuo spalancarsi di valli, di righe, di solchi e per ognuna di queste rughe sarebbe possibile scrivere una storia. La barba nera e incolta su cui spunta qualche pelo bianco mi ricorda vagamente Er Monnezza, il famoso personaggio di film polizieschi degli anni Settanta interpretato da Tomas Milian. Mi viene dritto incontro, mi stringe la mano e mi chiede di seguirlo.
Arriviamo nella locale sede di un noto sindacato, ci sistemiamo nella sala delle riunioni e il Bolscevico inizia a raccontarmi la sua storia.
Quarantanove anni di cui gli ultimi trentaquattro passati a lavorare in varie realtà della zona. Il primo lavoro che ha svolto fu quello di operaio in una fabbrica di ceramica che da un giorno all'altro i lavoratori trovarono chiusa: i proprietari avevano delocalizzato l'azienda e smontato tutti i macchinari nel giro di un fine settimana all'insaputa dei lavoratori. È durante questa occasione che il Bolscevico entrò in contatto con il sindacato. Poi è stato muratore, imbianchino e, infine, alla fine degli anni Ottanta, operaio nel locale stabilimento Fiat. Nel frattempo, ha affiancato alla sua attività sindacale anche l'impegno politico nei partiti della sinistra. In fabbrica ha lavorato per circa venticinque anni in vari reparti della linea di montaggio e, a causa del suo impegno politico-sindacale e della “pericolosità” della sua attività di rappresentante dei lavoratori, è stato sempre spostato da un reparto all'altro per evitare che riuscisse a creare uno zoccolo duro di contestazione nei confronti dell'azienda. Come lui stesso racconta: «In questi anni mi sono alternato nel... i primi anni ero alla parte meccanica e c'era un reparto che si chiamava la giostra. C'erano due linee praticamente: una che camminava sotto, con i motori, noi l'alzavamo dalla scocca che veniva sopra. Eravamo chiamati i minatori del... perché era un posto schifosissimo dove tu assemblavi motori, tutta la parte sotto-scocca della macchina. Poi negli anni ho cambiato vari reparti, sono stato in verniciatura sempre in catena di montaggio, poi in lastratura in catena di montaggio, poi sono tornato di nuovo al montaggio mi sono alternato sempre anche... » «Sempre sulla linea?» «Sì, perché io ero anche un soggetto scomodo per l'azienda per il fatto che ho sempre militato in politica, nel sindacato e quindi rompevo un po' i coglioni e quindi mi emarginavano, mi cambiavano spesso di squadra».
Il Bolscevico, però, prima di essere un militante politico, un attivista sindacale e un operaio della Fiat, almeno fino al prossimo 31 dicembre, è anche un uomo pieno di ricordi legati al passato e al luogo in cui sorge lo stabilimento. «Io nasvivi nto '63, me patri o '70 trasiu a Fiat e noi abbiamo avuto, come si dice, un innalzamento sociale... me patri di ncampagna vineva, nuatri pani e cipudda maciavamu va. Me patri trasiu a Fiat e allora gli stipendi si aggiravano intorno alle 100.000 lire al mese; un impiegato in banca nni pigghiava 80. Me patri s'accattò televisioni, lavabiancheria, frigorifero. A televisioni, nno quartieri, l'aviamu sulu nuatri e i cristiani si virevanu a televisioni e i partiti dintra a me casa, ca pariamu a o stadiu... Per farti capire che, la gente come me, che ha avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat, picchì a Fiat ti ha consentito di fariti na casa, me patri s'accattò l'850 che allora, l'850 era... chi t'ha diri, un Mercedes di ora... si caminava ca Topolina, ca 600, insomma era un machinuni. Perciò hai avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat... Minchia, regali ai picciriddi, pi Natali, circhi, cinema... cose alla grande, perciò la mia generazione, che è cresciuta con questa fase, gli anni '70, gli anni '80, unni a Fiat ca a Termini era tutto. Minchia, guai ai cristiani ca ci tuccavi... parravi mali da Fiat? Minchia, c'avi a fari... na santa inquisizione, nna cruci e t'abbruciavano: o rogo ti mittevano»1.
Rendere l'idea di un luogo di lavoro scevro da problemi, conflitti, ingiustizie e lotte è fuorviante e la romanticizzazione di un lavoro come quello di fabbrica non è per nulla la mia intenzione, ma credo che se si voglia capire la questione della vertenza Fiat di Termini Imerese, come di qualsiasi altra vertenza, è necessario cercare di inquadrare la questione tenendo conto delle varie posizioni e istanze dei soggetti che sono coinvolti nella stessa vertenza.
Il Bolscevico, così come molti altri lavoratori dello stabilimento, ha conosciuto senza ombra di dubbio quello che lo stesso informatore definisce come un innalzamento sociale, cioè un miglioramento delle condizioni economiche, sociali ed esistenziali grazie all'arrivo della Fiat nel territorio termitano. In questo senso è possibile affermare che lo stabilimento di automobili è stato un luogo che, grazie alla sua funzione di produzione materiale, è riuscito a creare un certo grado di benessere. Quest'ultimo si è palesato con l'arrivo degli elettrodomestici, delle automobili e con la creazione di reti sociali diverse rispetto a quelle che si esperivano e si esercitavano in un contesto di tipo non industriale2. Ma tali elettrodomestici, oltre ad essere degli strumenti di uso quotidiano, erano anche dei simboli da ostentare, davanti alla propria comunità, del proprio innalzamento sociale. Ed è a questo punto che la fabbrica da luogo dove si producono merci, diventa luogo in cui si producono simboli e diventa simbolo essa stessa: di un innalzamento sociale, di un benessere economico, di una soddisfazione personale.
È facile immaginare, a questo punto, cosa è potuto accadere con la chiusura e la conseguenza dismissione dello stabilimento Fiat. Quando, verso la fine della nostra conversazione, chiedo al Bolscevico cosa fa in questo momento è così che mi risponde: «Ma veramente non lo so cosa faccio, picchì mancu u sindacalista fici chiù».
Il Bolscevico: un uomo di mezza età che ha percorso il cammino di ascesa spianato dalla Fiat, che ha sempre trovato nell'attività politico-sindacale un modo per essere partecipe all'interno della propria comunità e un tratto identitario forte tanto da fargli guadagnare il suo soprannome, nella fase di dismissione attuale, non sa più cosa sta facendo. Si trova smarrito a fare i conti con uno stabilimento in dismissione che fino qualche anno fa era il simbolo di un benessere difficile, faticoso, ma possibile e ora è l'emblema di un futuro sospeso, incerto e smarrito ancora tutto da digerire, metabolizzare, rifare.

1«Io sono nato nel '63, mio padre nel '70 è entrato in Fiat e noi abbiamo avuto, come si dice, un innalzamento sociale... mio padre dalla campagna veniva, noi mangiavamo pane e cipolla. Mio padre è entrato in Fiat e allora gli stipendi si aggiravano intorno alle 100.000 lire al mese; un impiegato in banca ne guadagnava 80. mio padre si è comprato la televisione, la lavabiancheria, il frigorifero. La televisione, nel quartiere, ce l'avevamo solo noi e le persone guardavano la televisione e le partite a casa mia, che sembravamo allo stadio... Per farti capire che, la gente come me, che ha avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat, perché la Fiat ti ha consentito di farti una casa, mio padre si è comprato la 850 che allora, la 850, era... che ti posso dire, un Mercedes di ora... si camminava sulla Topolina, con la 600, insomma era un macchinone. Perciò hai avuto questo innalzamento sociale grazie alla Fiat... Minchia, regali ai bambini, per Natale, circhi, cinema... cose alla grande, perciò la mia generazione, che è cresciuta con questa fase, gli anni '70, gli anni '80, dove la Fiat qui a Termini era tutto. Minchia, guai alle persone che ci toccavano... palavi male della Fiat? Minchia, cosa doveva fare... una santa inquisizione, sulla croce e ti bruciavano: al rogo ti mettevano».
2È il caso, per esempio, delle riunioni di vicinato per guardare la televisione.

venerdì 20 settembre 2013

La pesante soggettività dell'etnologo

In un testo del 1957, Georges Balandier scriveva:

Se moi est haïssable, occorre fare eccezione per l'etnologo. Egli deve collocare la propria testimonianza, che procede non tanto da una tecnica esperta quanto da molteplici interferenze fra la civiltà osservata e il suo osservatore. Il suo lavoro sul campo implica un'estrema sensibilità, un continuo sforzo di adattamento. È anche necessario ch'egli scopra se stesso nel momento stesso in cui studia i risultati della sua ricerca (Balandier G., 1957, Afrique ambigüe, Parigi: 14-15).

Quello che segue è un altro stralcio del mio diario di campo in cui tento di riflettere sulle dinamiche di fabbrica e su come queste avvolgono e fagocitino il ricercatore. Questo graduale assorbimento, unitamente alla fase di analisi dei proprio dati e del proprio ruolo nel contesto di campo, permettono di mettere in luce aspetti del carattere del ricercatore che in altri contesti non sarebbero mai potuti emergere. In questo modo è anche possibile evidenziare le dinamiche che si instaurano fra osservatore e osservato, fondamentali per un processo di conoscenza come quello etnoantropologico in cui il laboratorio empirico è lo scorrere incessante e frenetico della stessa vita.

Torino, 10/08/2013
Comincio a codificare sempre di più le dinamiche che agitano la fabbrica e a rimanerne imbrigliato, mio malgrado. Ci sono giorni che non riesco tollerare la pesantezza dei discorsi dei miei colleghi, che vertono sempre sulla nostra condizione precaria, sugli abusi e i soprusi che siamo costretti a ingoiare. Pensare a tutto questo, soprattutto quando sono stanco, mi destabilizza.
Il fatto che riesca a codificare quelle dinamiche implica che anche io comincio a farne parte, a rimanere imbrigliato nel movimento, sempre diverso e sempre uguale, provocato dallo scontro/incontro dei soggetti in società. Ho notato di avere due modi di base con cui rapportarmi agli altri, in questa situazione: il primo è simpatico e scapestrato e il secondo, all’estremo opposto, è schivo e defilato.
Nel primo caso, durante i pochi minuti di pausa tendo a raccontare aneddoti divertenti della mia vita. Spesso faccio questo in siciliano, anche se molte parole qui non vengono capite. In questo caso il mio modo per intrattenere una relazione con l’altro passa attraverso le risate e l’ilarità: mostrarmi come un ragazzo leale, ma che conosce il mondo e sa il fatto suo. Utilizzo il siciliano e mi sono reso conto che, nella cerchia di torinesi che frequento, questo dialetto è percepito come ilare e, volendo esagerare, “esotico”. Dal mio punto di vista, questo dialetto è stato da sempre il mio primo approccio al mondo, la lingua che mi identifica, non per una questione di orgoglio posticcio e mieloso o di fierezza meridionalista che non mi appartiene. Ma perché questo dialetto è il mio strumento primo e di base con cui sono cresciuto e tramite cui ho imparato a conoscere e discretizzare il mondo. Wittgenstein ha scritto che: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» intendendo in questo mondo che i fatti che accadono producono altri fatti in una serie infinita, ma ciò che rimane finito, e che quindi rappresenta il confine del mondo di ognuno di noi, è la nostra lingua; il modo con cui noi discretizziamo il mondo: il siciliano è stato il mio primo limite del mondo e quello da cui riparto ogni volta che posso; ogni volta che sento l'inconscia necessità di avere un punto fermo.
Il secondo modo di approcciarmi agli altri è molto più ruvido e aggressivo. Tendo a emarginarmi e a ricercare scampoli solitudine. In questi casi, il silenzio è il mio primo attrezzo di comunicazione e, se proprio devo parlare, di solito li faccio per mandare a quel paese qualcuno.
È strano vedere come dei modi del tuo essere con cui hai convissuto per tutta una vita emergano in una situazione del tutto nuova, in cui nessuno ti conosce, sa come eri prima e come sei adesso: una situazione in cui i punti fermi te li devi cercare da solo.
Cosa rimane quando tutto è lontano? Quando ti guardi nudo allo specchio? Rimane ciò che sei veramente, ciò che hai imparato a essere e rimangono i tuoi modi di essere-nel-mondo che, come punti luminosi lungo un percorso oscuro, indicano la via da seguire.

lunedì 16 settembre 2013

Il concetto di deindustrializzazione in antropologia


Spesso, nei post precedenti, ho utilizzato il termine deindustrializzazione. Credo, adesso, che sia arrivato il momento di chiarire cosa intendo con tale termine e il valore che esso può avere all’interno degli studi di antropologia.
La parola deindustrializzazione è entrata nel linguaggio comune abbastanza recentemente e si è diffusa nel periodo dell’attuale crisi economica. Ciò, tuttavia, non significa che i processi di chiusura delle fabbriche e la crisi del settore manifatturiero siano apparsi nella storia del mondo altrettanto recentemente o partire dal 2009 né, tantomeno, che gli antropologi non si siano mai occupati di indagare quelle realtà che da una fase di espansione e di sviluppo industriale si sono trasformate in altro.
Uno dei primi testi a trattare degli effetti sociali della chiusura di alcune realtà di tipo industriale è quello dato alle stampe da Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel (2002 [I ed. 1933]). Il testo tratta delle condizioni socio-economiche ed esistenziali di alcuni disoccupati nella città di Marienthal, a seguito della chiusura delle miniere e delle fabbriche locali determinata dalla crisi economica del 1929. Il testo, che per alcuni anni è circolato in forma anonima per permettere ai suoi autori di sfuggire alla repressione nazista, è ormai considerato un classico delle scienze sociali. In esso gli autori, analizzano i disoccupati di lunga durata della cittadina austriaca partendo da valutazioni di tipo sociologico (quante volte a settimana i disoccupati riescono ad avere un pasto completo, i tipi di vestiti posseduti e il loro stato, le abitudini intellettuali ecc.). Tuttavia, questo saggio acquista un valore importante per gli studi dell’antropologia contemporanea, grazie all’analisi di alcuni elementi quali la concezione e la percezione dello scorrere del tempo dei disoccupati locali e il verificarsi di un certo numero di trasformazioni nelle dinamiche di potere fra generi.
Un altro testo fondamentale nella questione della deindustrializzazione, nell’ambito degli studi di scienze sociali, è Expectations of Modernity: Myths and Meanings of Urban Life on the Zambian Copperbelt (1999) di James Ferguson. In questo testo, l’antropologo americano, attraverso l’analisi della vicenda di tredici ex-minatori, analizza i processi di deindustrializzazione e del ritorno a un’economia di sussistenza basata principalmente sull’agricoltura. Ferguson è forse il primo a notare, nell’ambito degli studi di scienze sociali, il fatto che se da un lato la globalizzazione economica e, solo in un secondo momento culturale, ha messo in connessione paesi anche molto lontani fra loro. Tale processo ha anche prodotto, come afferma lo stesso Ferguson, tutta una serie di disconnessioni di altre zone geografiche che, con l’apertura di nuovi mercati e di nuovi flussi economici, hanno perso la loro importanza politica ed economica provocando tutta una serie di profonde trasformazioni socio-culturali.
Un altro testo che, sebbene affronti la questione della disoccupazione, tratta il tema della deindustrializzazione in maniera collaterale, è il testo di Leo Howe, Being unemployed in Northern Ireland. An ethnographic study (1990). Qui l’autore affronta la questione della disoccupazione e delle strategie per fare fronte a questa condizione nelle comunità cattoliche e protestanti dei suburbi di Belfast. Il testo è molto interessante per le modalità di ricerca dell’autore, il quale frequenta sia le due comunità religiose sia gli uffici delle agenzie per il lavoro. In questa situazione ciò che emerge, in estrema sintesi, è come per la prima volta lo stato di disoccupazione sia analizzato, grazie al rapporto con gli informatori, non come semplicemente una condizione economica, ma come una questione simbolica correlata sia al proprio sostrato sociale, sia alla percezione e all’etica del lavoro derivante dalle due confessioni religiose cui fanno riferimento gli informatori.
Infine un altro testo interessante è A view from Federal Hill (2001: 246-249), dove per la prima volta, attraverso la vicenda della città di Baltimora, la deindustrializzazione e la conseguente finanziarizzazione dell’economia locale sono trattate non come un caso isolato, bensì come un processo caratteristico di tutti quei paesi che presentano un avanzato stato d’industrializzazione1.
Tali testi dimostrano come la deindustrializzazione, presente, almeno nella storia dell’Occidente, già dai primi del Novecento, abbia assunto gradualmente i caratteri di un processo strutturale che, tuttavia, si è reso pienamente visibile solo con l’esplodere della crisi economica attuale2. La deindustrializzazione rappresenta, quindi, un profondo mutamento che si ripercuote sulla struttura sociale e sulle pratiche comunitarie e simboliche.
L’immediato risultato di tale mutamento è, al livello sociale, l’insorgere di uno stato di precarietà che logora le tradizionali pratiche sociali, politiche, economiche ed esistenziali che fino a qualche anno fa si ritenevano fondamentali della nostra società3.
Luciano Gallino, che di flessibilizzazione e di precarietà si è occupato in diversi testi, scrive:

Il tratto che accomuna gran parte dei lavoratori flessibili è appunto il loro essere precari, predicato che – a rigor di dizionario – riassume due cose. Anzitutto l’essere in varia guisa, codesti lavori, e da diversi punti di vista, insicuri, temporanei soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fugaci. In secondo luogo, come dice bene l’etimo del termine “precario”, sono lavori che bisogna pregare per ottenere […]. Il senso della precarietà dell’occupazione, la consapevolezza che, per quanto bene uno svolga il proprio lavoro, la durata e la qualità della sua occupazione non ne saranno quasi mai positivamente influenzate, più l’umiliazione di dover pregare qualcuno per continuare a lavorare, rientrano tra gli oneri che gli addetti a lavori flessibili collocano non solo tra i più pesanti ma pure tra i più sgradevoli (Gallino, 2012: 126-127).

Se questa rappresenta un’immagine di massima degli attuali precari italiani, soprattutto nell’ambito di una progressiva deindustrializzazione e di una terziarizzazione dell’economia sempre più avanzata, è Guy Standing che fornisce una definizione dell’attuale classe precaria:

Quel che manca ai precari, oltre la sicurezza lavorativa e il reddito sociale, è l'identità professionale. Quando vengono assunti, occupano posti che non danno prospettive di carriera, per cui non vi è una tradizione o una memoria condivisa e non si prova la sensazione di appartenere a una comunità occupazionale inquadrata in pratiche consolidate, con codici e norme di comportamento e rapporti di reciprocità e fraternità. Il lavoratore precario non si sente integrato in una collettività lavorativa solidale. Ciò accresce il senso di alienazione e strumentalizzazione nell'assolvimento del proprio compito. [...] Al precariato manca una identità professionale, sebbene alcuni una qualifica ce l'abbiano, mentre altri rispondono a titoli alla moda e improbabili (Standing 2012: 29-30).

Alla luce di quanto appena detto, quindi la questione della deindustrializzazione e delle sue implicazioni sociali, prima di tutto quella del precariato, rappresentano una delle sfide che la contemporaneità lancia all’antropologia. Compito di questa, a mio avviso, deve essere cogliere quella sfida e analizzare realmente e tenacemente le mutazioni, le dinamiche e i conflitti che un tale stato precario, deindustrializzato pone alla scienza antropologica al fine di contribuire a un’analisi e a una comprensione di tali dinamiche che esuli da interpretazioni di comodo o capziose.

Riferimenti bibliografici
Ferguson J., 1999, Expectations of Modernity: Myths and Meanings of Urban Life on the Zambian Copperbelt, University of California Press, Berkeley-Calif.
Gallino L. 2012, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari.
Harvey D., 2001, A view from Federal Hill, in id. Spaces of capital. Towards a critical geography, Routledge, New York, pp. 246-249.
Howe L., 1990, Being unemployed in Northern Ireland. An ethnographic study, Cambridge University Press, New York.
Jahoda M., Lazarsfeld P. F., Zeisel H., 2002, Marienthal. The Sociography o fan Unemployed Community, Tranzaction Publishers, New Bruswick-London (ed. or. 1933, Die Arbeitslosen von Marienthal. Ein soziographischer Versuch über die Wirkungen langandauernder Arbeitslosigkeit, Hirzel, Leipzig).
Standing G., 2012, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna (ed. or. 2011, The Precariat: The new dangerous class, Bloomsbury Academic, London-New York).

1La presente rassegna di testi non ha nessuna pretesa di esaustività. Solo per fare qualche esempio, rimangono fuori da tale rassegna testi del calibro di Made in Sheffield. An ethnography of industrial work and politics (2009) Massimiliano Mollona e Industrial work and life. An Anthropological reader (2009) curato dallo stesso Mollona, De Neeve e Parry. Questi testi, tuttavia, unitamente a quelli in precedenza citati rappresentano dei punti di partenza da cui è possibile estrapolare le principali tematiche riguardanti la deindustrializzazione attuale.



2A supporto di tale ipotesi è possibile citare le elaborazioni dell’agenzia giornalistica Adnkronos sui dati Istat. Secondo tale agenzia, negli ultimi dieci anni (2002-2012) la produzione industriale italiana è calata del 17,8%. Cfr. http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Produzione-industriale-in-caduta-libera--178-negli-ultimi-dieci-anni_32462252936.html



3Il processo di precarietà e di precarizzazione dei lavoratori italiani risulta evidente dai dati Istat sull’andamento del mondo del lavoro. Come rileva, infatti, il Rapporto Istat 2013: «Nell’industria in senso stretto, la riduzione dell’occupazione complessiva è stata relativamente marcata sia in termini di forze di lavoro (-1,8 per cento), sia in termini di Ula (-1,9 per cento). […]La diminuzione dell’occupazione totale ha coinvolto sia gli occupati dipendenti (-0,2 per cento la variazione media del 2012), sia gli indipendenti (-0,7 per cento) (Tavola 1.10). Tra i dipendenti, a fronte di una caduta degli occupati a tempo indeterminato (-0,7 per cento) si è verificata una crescita degli occupati a termine (3,1 per cento); inoltre, alla riduzione dell’occupazione dipendente a tempo pieno (-2,1 per cento), ha corrisposto l’aumento di quella a tempo parziale (4,1 per cento)» (Istat, 2013: 37-38).


sabato 7 settembre 2013

Processi di deindustrializzazione a confronto: il caso delle OGR e della Fiat di Termini Imerese

La gente è in fila davanti ai cancelli. Degli uomini con le giacche giallo-fosforescenti controllano le borse di chi entra per assicurarsi che all’interno non ci siano bottiglie di liquori. Alcune ragazze, anche queste con le giacche giallo-fosforescenti, sono ferme accanto a scatole con una fessura sulla parte superiore e chiedono una piccola offerta. Francesco M. ed io, due operai precari, senza memoria e con un futuro perso in un vago quanto impacciato “vedremo”, varchiamo i cancelli e davanti a noi si apre un grande cortile con ghiaia rossa e, proprio al centro, una passerella bianca e nera, che attraversa il cortile in tutta la sua lunghezza. A destra quello che fu il reparto Fonderie e Fucine: uno spazio immenso a tre navate su cui è installato un palco e, a sinistra di questo, angoli ristoro dove è possibile comprare panini e birre a buon mercato. Passiamo oltre. Di fronte a noi adesso si apre una specie di hall con stand in cui è possibile acquistare t-shirt, libri, cd musicali. A sinistra della hall uno spazio diviso da mura bianche su cui sono appesi quadri di arte contemporanea e, alla fine delle mura, un altro palco. A sinistra un’altra grande ala, la sala delle macchine, dove si trovano foto di cantanti famosi e in fondo al salone, un cantante, in carne e ossa, si presta all’occhio scrutatore del fotografo: appostato contro il muro, assume posizioni innaturali e sembra, in fondo, voler sfuggire a quella fucilazione digitale. Ecco cosa sono oggi le Officine Grandi Riparazioni. Uno spazio restituito alla città di Torino. Uno spazio che, in qualche modo, ha creato una buona parte di quello spazio cittadino.
Le OGR, infatti, furono costruite nel 1884 in quella che allora era una zona che si trovava al di fuori delle mura cittadine. Inserite in un piano urbanistico che vide la costruzione, in quel periodo, delle Carceri Le Nuove (oggi museo del carcere), del nuovo mattatoio comunale e, di tutta una serie di industrie grandi e piccole, le officine, di proprietà delle ferrovie dello stato, furono il primo grande emblema dell’industrializzazione torinese nascente. Con i loro 190.000 metri quadrati di superficie, esse rappresentarono anche il centro dello sviluppo di un nuovo quartiere, Borgo San Paolo, dove la maggior parte degli operai che lavoravano nella zona andò a vivere.
Questi operai rappresentavano, in qualche modo, l’aristocrazia dei lavoratori. Entrare, infatti, alle OGR non era facile. Per essere assunti la direzione ferroviaria[1] chiedeva agli aspiranti lavoratori di costruire il “capolavoro”: un attrezzo, o un marchingegno, o, infine, un ingranaggio di alta precisione che rappresentasse in qualche modo l’apice della capacità artigianale dell’operaio. Borgo San Paolo divenne anche, proprio per la sua composizione operaia di alta specializzazione, un centro dove le idee dell’allora nascente socialismo attecchirono facilmente. È qui, solo per fare un esempio, che il giovane studente Antonio Gramsci cominciò il suo percorso di dirigente politico o, ancora, è sempre questo borgo, fatto di lavoratori con una consapevolezza profonda e radicata del proprio ruolo e della propria responsabilità sociale, politica e civile, a dare un contributo fondamentale alla resistenza contro i nazisti.
La storia delle Officine Grandi Riparazioni, dove una carrozza o una locomotiva mal messa e vecchia ne poteva uscire completamente rinnovata, dura 105 anni. All’inizio degli anni Novanta, infatti, l’Italia è cambiata. Si decide che i treni è meglio comprarli nuovi piuttosto che ripararli. O è meglio buttarli in qualche binario morto e non sostituirli per niente. Gli italiani utilizzano sempre di più altri mezzi di trasporto e i lavoratori cominciano il loro grande esodo verso lidi politici che qualche anno prima sarebbero stati impensabili.
Anche l’economia di un’intera nazione cambia. Torino e la vicenda delle OGR rappresentano, in questo senso, fra i primi segni che gli italiani si sono stancati dell’industria, della fatica e della sporcizia che si cela nei ventri di cemento e acciaio di quelle cattedrali rumorose. È necessario fare altro ed è così che in un primo momento si decide di demolire le Officine e, invece, dopo si pensa di restituire quello spazio immenso alla cittadinanza, uno spazio che da luogo di produzione industriale diventa luogo di produzione culturale o, meglio, d’industria culturale.
Casi come quello delle Officine Grandi Riparazioni, in cui un’attività industriale è dismessa per fare posto a un’attività legata alla cultura o ai servizi, si potrebbero citare a centinaia. La tonnara di Favignana, per esempio, dove oggi è possibile assistere a mostre, spettacoli, concerti, proiezioni di film e così via. O, ancora, le ex Fonderie Reali di Palermo, dove oggi si celebrano i matrimoni civili: un luogo, quindi, dove ieri si fondevano metalli e oggi vite.
In un bel saggio del 1992, A view from Federal Hill, David Harvey analizzava i cambiamenti socio-culturali e spaziali intervenuti nella città di Baltimora a cominciare dal periodo post-bellico fino ai primi anni Novanta. In questo saggio Harvey rileva che l’economia della città americana si è trasformata da un’economia industriale a una di servizi e di finanza. Questo è un processo che negli ultimi anni ha investito l’intero comparto industriale e politico. Attualmente non c’è cittadina industrializzata e, allo stato attuale deindustrializzata, che non voglia riconvertire il proprio polo industriale dismesso in qualche altra attività di servizio, o turistico, o culturale. Nel post Il PresidenteCrocetta e la mitopoesi del dopo-Fiat siciliano, ho messo in evidenza il fatto che la proposta di reindustrializzazione del sito automobilistico siciliano del governo regionale è fallace e, almeno, nella fase attuale, irrealizzata. Tale proposta ha creato malumori fra gli operai anche, ma naturalmente non solo, perché toglie la possibilità alla popolazione locale di rimodulare la memoria e l’identità di cui la fabbrica Fiat dismessa, volenti o nolenti, è il simbolo.
Ciò che intendo dire è che, casi come quello delle OGR, all’interno delle quali oggi sono organizzate mostre e concerti musicali di cantanti famosi, per essere attualizzati e messi in opera richiedono il loro tempo. La comunità deve fare i conti con se stessa guardarsi in faccia attraverso quel simbolo, capire cosa farne.
Nel caso di Termini Imerese, invece, questo tempo sta mancando. Non c’è più tempo di aspettare che la Fiat o gli Enti locali decidano cosa fare dello stabilimento e degli operai perché il 31 dicembre questi saranno definitivamente licenziati. Non c’è ancora il tempo di pensare una riconfigurazione dello stabilimento poiché, ancora oggi, molti degli operai e degli abitanti credono e sperano che presto si risveglieranno dall’incubo della chiusura della fabbrica, indosseranno ancora la tuta da lavoro e varcheranno i cancelli come se nulla fosse.
Se nel caso delle OGR è possibile parlare di rimodulazione spaziale e simbolica abbastanza riuscita, ma, è bene dirlo, anche economicamente e produttivamente marginale rispetto a quando qui si riparavano i treni; nel caso della Fiat di Termini Imerese la fabbrica e lo spazio fisico occupato da essa sono ancora troppo presenti nel panorama immaginario locale, troppo pesanti e troppo vicini per pensare a una rimodulazione radicale. E se lo spazio, in questo caso, è troppo pesante, è troppo denso, la percezione temporale inevitabilmente ne subisce i contraccolpi tranciandone di netto la proiezione e la profondità storica: un tempo accartocciato su se stesso e cieco, elemento costitutivo principale dell’attuale condizione precaria.



[1] Per dire dell’importanza delle Officine Grandi Riparazioni, basti soltanto ricordare che nei primissimi anni di attività esse furono affidate alla direzione dell’ingegnere Germano Sommeiller, l’inventore della perforatrice ad aria compressa, utilizzata nel traforo del Frejus, e il costruttore della strada ferrata Torino-Genova.