Racconti dal mondo precario

domenica 8 dicembre 2013

La colpa della malattia


Per dare un senso alla malattia gli uomini hanno da sempre dovuto attribuirgli delle cause, siano esse biomediche, sovrannaturali o simboliche.
Nel 2009 mi trovavo in Tanzania, nel villaggio di Nzihi, presso la popolazione dei Wahehe. Lì indagavo, nell'ambito del mio percorso di studi universitari, i modi di discretizzare e curare la malattia dell'Hiv/Aids. Fra le cose che più di tutte mi colpirono durante le indagini sul campo fu che ogni attore sociale da me intervistato dava una sua peculiare lettura dell'insorgere e della diffusione del virus in quella regione. Le posizioni che emersero, tuttavia, possono essere riassunte essenzialmente in due grandi tesi: da una parte vi erano coloro che, rifacendosi ad uno stile di vita che per semplificare dirò tradizionale, sostenevano che il virus era comparso a seguito delle grandi migrazioni dei giovani del villaggio che, per trovare fortuna, erano andati a vivere nelle grandi città della costa (Dar es Salam, Bagamoyo o, in alcuni casi l'isola di Zanzibar). Dall'altra parte vi erano coloro che, forti di un bagaglio culturale acquisito in alcuni anni di studio o di vita proprio nelle grandi città, sostenevano che la colpa della diffusione era dovuto allo stile di vita tradizionale e, in particolar modo, dall'istituto matrimoniale hehe.
Nel primo caso, l'insorgere del virus era dovuto al fatto che i giovani, allontanandosi dal proprio villaggio, erano venuti meno a tutta una serie di prescrizioni culturali che stavano alla base della società hehe stessa come, per esempio, la cura degli antenati e, soprattutto le relazioni coniugali intrattenute in quelle città senza il consenso dell'intera famiglia e quindi al di fuori di un preciso corpus di norme che regolavano lo scambio e la distribuzione della ricchezza e delle donne fra clan della società hehe e fra questa e il mondo degli antenati. Ciò aveva provocato, secondo molti, uno squilibrio cosmico che minacciava la stessa esistenza della società. Il virus, in quest'ottica, rappresentava la prova della trasgressione di quelle leggi basilari.
Secondo i sostenitori della seconda tesi, invece, istituti matrimoniali peculiari della società hehe, come la poligamia e il levirato, residui, per molti, di un passato vecchio, superato e viziato da ignoranza, erano la causa della grande diffusione della malattia nella regione di Iringa1. Gli uomini e le donne, ma soprattutto queste ultime secondo l'opinione comune, sieropositivi avevano contratto il virus durante relazioni extra-coniugali. Il virus, in seguito, sarebbe stato trasmesso al partner che lo avrebbe trasmesso alle altre mogli (nel caso dell'uomo) e ai figli (nel caso delle donne). In questo caso il virus era la macchia indelebile, minacciosa e infamante per un intero gruppo familiare.
Ciò che accomunava le due tesi, tuttavia, era che la malattia era il frutto di una trasgressione, di una violazione dell'ordine sociale che, in definitiva, minacciava la convivenza e la reciprocità fra gli uomini.
Recentemente, in un contesto totalemente differente, mi sono nuovamente imbattuto nella concezione della malattia come colpa da sanzionare.
Qualche giorno fa, un'importante multinazionale di logistica ha proposto ai suoi operai italiani un accordo: il premio di produzione annuale, che ammonta a circa 162 euro per ogni singolo operaio dello stabilimento, sarebbe stato corrisposto solo a quei lavoratori che avrebbero usufruito dei giorni di mutua al di sotto di una certa soglia. I sindacati, avendo ascoltato la proposta, hanno ad un certo punto chiesto a quanti giorni di malattia avrebbero dovuto rinunciare gli operai che volevano avere il loro premio di produzione. A tale richiesta l'azienda ha risposto che se i sindacati avessero voluto conoscere i dettagli, dovevano prima firmare l'accordo. Preso atto della decisione aziendale di celare i termini precisi dell'accordo fino a che lo stesso non fosse stato accettato dai lavoratori, i sindacati hanno indetto un referendum che ha sancito un esito positivo a favore dell'azienda (aventi diritto al voto 460 dipendenti, votanti 417, rispote affermative 371). A distanza di una settimana dal voto, tuttavia, non si conoscono i termini precisi dell'accordo e, però, bisogna chiedersi cosa cambierà in seguito a questo accordo?
Il diritto “alla mutua” è sancito come uno dei fondamenti della legislazione in materia di lavoro vigente in Italia. Tuttavia, chi ne usufruisce in abbondanza, per ragioni reali o meno, è spesso additato di essere un dipendente con scarso senso del dovere nei confronti della propria azienda e, negli ultimi anni, di essere anche un ingrato nei confronti della stessa e di coloro che non hanno un lavoro in ragione della situazione di disoccupazione o sotto-occupazione generale. In altre parole chi oggi usufruisce della malattia, a ragione o a torto, è considerato come uno scansafatiche, un ingrato, un profittatore. Con il referendum proposto dalla multinazionale, a mio avviso, si fa un ulteriore passo in avanti verso la considerazione del dipendente malato come elemento simbolicamente negativo. La malattia, in questa ottica, è sancita definitivamente e chiaramente come un comportamento deviante e usufruire dei giorni di mutua, oltre una non meglio specificata soglia, è la dichiarazione ufficiale di inadeguatezza al lavoro, di una colpa che va punita con il solo mezzo che oggi conta: il denaro, o meglio, la negazione del denaro. La malattia è una colpa che, se reiterata, può dichiarare un dipendente improduttivo, inutile, un peso per l'azienda e, se tale malattia si diffonde, per la stessa esistenza dell'azienda. Essa diventa così una minaccia latente per l'intera comunità di lavoratori.
La lettura dello stato di malato, in questo particolare contesto lavorativo, si trasforma da diritto dei lavoratori a dispositivo di divisione e governo della comunità dei lavoratori che, presi in una continua lotta fra poveri, potranno identificare nel loro compagno, veramente o falsamente, malato un potenziale motivo di minaccia del proprio lavoro, un sicuro concorrente profittatore che vorrebbe accedere ad un incentivo che in fondo non lo riguarda e, infine, ad un simbolico untore di un intero stabilimento, che troverà un altro escamotage per minacciare chiusura ad ogni piè sospinto.
È la malattia del nostro vicino e, non sia mai, la nostra stessa malattia a renderci precari? Una malattia che abbiamo la necessità, sempre, comunque e dovunque, in Tanzania come in Italia, come in qualunque altro posto, di vedere come una colpa, come uno stato di una evidente trasgressione? Sono quelle 162 euro di premio di produzione negato a sancire il nostro stato patologico?
Se è così siamo davvero un paese malato per cui la cura è ancora di là da venire.
1La regione di cui fa parte il villaggio di Nzihi.